Greenwashing: cos’è e che tipo di trappola si tratta?

greenwashing la trappola nella moda

In questo articolo, a cura di Marisa Gorza (esperta e docente IFDA), scopriamo insieme il vero significato del Greenwashing: il lavaggio verde che confonde le coscienze!

La trappola del Greenwashing

Davvero improvvisamente tutto è diventato “green” o “greenwashing”, amico dell’ambiente e della natura, non inquinante, ecologico o biologico? Non c’è azienda che non investa in campagne di marketing esaltanti le “genuine” qualità intrinseche della propria produzione. Sostenibilità è la parola d’ordine del momento, ma su cosa sia effettivamente sostenibile, e su cosa non lo sia, c’è ancora molta confusione…


Greenwashing” (lavaggio verde?!), eccolo il termine coniato per descrivere le pratiche volte a migliorare o, addirittura, a creare la reputazione di un’azienda riguardo le pregnanti questioni ambientali. Una sorta di lavaggio delle coscienze che nel mondo della moda (e non solo) sta sempre più diventando una questione di branding. Magari non sempre con una effettiva responsabilità morale e sociale. Anzi, nei casi peggiori, ha solo il discutibile obiettivo di assicurarsi il ritorno economico.


Nuovi dubbi e nuovi interrogativi


In un periodo già difficile per l’insicurezza economica causata dai conflitti internazionali e dal post covid, sarebbe indispensabile guadagnarsi meritevole fiducia da parte dei consumatori. Purtroppo però molte aziende cadono in questa attuale e illusoria trappola. Tuttavia il termine “greenwashing” non è recentissimo. Difatti è stato usato per la prima volta nel 1986 dal noto ambientalista Jay Westerveld in risposta a una campagna pubblicitaria promuovente un’immagine totalmente verde di una maison che aveva tutt’altra reputazione. Manco a dirlo, la tattica utilizza l’ambientalismo, l’immaginario del bucolico e dell’incontaminato e le espressioni più popolari evocanti la protezione del pianeta. Così per le aziende di moda è corsa sfrenata al bollino verde: c’è chi sperimenta nuovi materiali, chi punta alle energie rinnovabili, chi attiva programmi di riciclo…ma è sufficiente? Piuttosto: è tutto veritiero? Si fanno spazio nuovi dubbi e nuovi interrogativi.


Buone intenzioni, ma…


Meno male che, sulla scia di queste pulsioni, diversi marchi di moda stanno provvedendo ad un corretto tracciamento della filiera produttiva, volto a stime attendibili e non solo a slogan acchiappa “like”. Ma, malgrado le buone intenzioni, si tratta di obiettivi perseguibili a lungo termine, non facilmente dimostrabili.
La paladina dell’ambiente Greta Thumberg, insieme alla platea dei suoi seguaci, ha condannato le aziende della moda definendole un vero e proprio festival del green washing. In particolare è stato puntato il dito contro i marchi del fast fashion, anche se spesso propongono collezioni che vantano sostenibilità. Ma si possono definire sostenibili i capi, magari in tessuti riciclati ad hoc, se i lavoratori della filiera non sono adeguatamente tutelati o se, per commerciarli, viene richiesto un massiccio uso di mezzi di trasporto molto inquinanti?
A questo proposito vorrei ricordare un discorso tenuto in altri tempi dal mai dimenticato Elio Fiorucci in cui sosteneva che un capo si può considerare “etico” da indossare solo se il suo iter produttivo non ha dato adito ad alcuna sofferenza. Difatti va sottolineato la tormentata storia della naturalissima fibra di cotone che, per dar vita a vaporose e freschissime trame, ha causato non poco dolore e sofferenza. Inoltre, i preziosi arbusti del cotone richiedono l’uso intensivo di pesticidi e un altissimo impatto idrico. Le fibre sintetiche sono in effetti meno esigenti dal punto di vista idrico, ma comportano altri rischi riguardanti l’inquinamento. Quanti dilemmi!


Un fenomeno di moda: Green Washing

La trappola del greenwashing nella moda.


Intanto i movimenti di attivismo e sostenibilità, con i loro risultati a lungo termine, sono diventati dei veri e propri fenomeni di moda e, come tali, inevitabilmente capitalizzati…a breve termine. Tra questi fenomeni, inutile negarlo, si inserisce pure il fatidico green washing. Si sa che, per definizione, la moda veloce prospera sul costante ciclo di “usa e getta”, mentre la sostenibilità lotta per abbattere tali sistemi. Proprio come un cagnolino che rincorre la sua coda!
La moda, come del resto ogni branca dell’economia, è piena di contraddizioni e incongruenze. Per questo ci rivolgiamo alla dott.ssa Micol Costi del team Innovation & Research Materially, perché ci aiuti a districare la matassa.


L’importanza dell’etichetta


La nostra esperta, con garbo e competenza, ci informa che l’iter produttivo di un prodotto tessile o non, per ridurre l’impatto ambientale deve sviluppare adeguatamente quattro importanti punti che vanno da:

  • la composizione del materiale;
  • il processo produttivo;
  • il ciclo di vita
  • il fine vita (ovvero cosa si può ancora realizzare alla fine del suo percorso).

“Non sempre- sottolinea la nostra esperta- tutto ciò viene rispettato, anzi con la tattica del lavaggio verde a volte si cerca di attribuire un certo valore di sostenibilità al proprio marchio, anche se potrebbe essere ben lontano dal possederlo. Secondo il Circularity Gap Report 2021, stilato da Circle Economy, soltanto l’8,6% dei materiali viene reinserito nell’economia. Quindi il restante 94,4% dell’economia globale, tessile incluso, agisce sempre secondo l’economia lineare del “produci-usa-getta”. Ad ogni modo se c’è chi trae in inganno, c’è pure chi opera, ad esempio, nel rispetto delle credenziali GOTS(Global Organic Textil Standard).”

Dott.ssa Costi, come si deve orientare il consumatore finale per scegliere marchi la cui sostenibilità è attendibile?

“Il consumatore può controllare le informazioni riguardanti il prodotto esposte sull’etichetta del capo o del prodotto. Come pure i dati afferenti le certificazioni e le dichiarazioni spontanee da parte dell’azienda, tra i quali il bilancio annuale di sostenibilità. Molte maison lo redigono e lo pubblicano.”

L’etichetta contenente tutti questi dati è obbligatoria?
“Purtroppo no, o almeno non è ancora prevista dalla nostra legislazione. Tuttavia ci sono aziende, sempre più attente all’aspetto sociale della sostenibilità, che cercano di migliorare le condizioni dei lavoratori della filiera. Non ultimo l’uso di una energia più pulita, magari adottando i pannelli solari. Tutto questo fa ben sperare!”

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